martedì 24 aprile 2012

Tolkien e il Cristianesimo


Durante i mesi di documentazione sull’opera tolkieniana, mi è capitato spesso di inciampare nell’idea che questo autore abbia voluto trasmettere un qualche contenuto religioso ai suoi lettori, come se uno degli intenti del suo lavoro letterario sia stato quello di “convertire” i malcapitati, intrappolandoli in una ragnatela fatta di sottile simbolismo cristiano.
Personalmente non ho mai ritenuto veritiero questo filone di pensiero, nonostante sia innegabile il profondo legame esistente tra il professor Tolkien e la dottrina cattolica. Esso, a ben guardare, affonda le radici molto in lontananza, nell’infanzia dello scrittore, e rimane indissolubilmente avvinto al rapporto con la madre Mabel. Una madre che, abbandonata da tutto il resto della famiglia dopo la morte del marito, ha combattuto e sofferto per crescere i suoi figli nei valori del cattolicesimo. E che in ultima istanza è morta affidando i fratelli Tolkien ad un intimo amico di famiglia, padre Francis.
Ronald non avrebbe mai potuto abbandonare una fede conquistata con tanto patimento; ne fece invece un punto fermo nella propria vita, un baluardo di verità per nutrire la propria mente.
Mia madre è stata veramente una martire; non a tutti Gesù concede di percorrere una strada così facile, per arrivare ai suoi grandi doni, come ha concesso a Hilary e a me, dandoci una madre che si uccise con la fatica e le preoccupazioni per assicurarsi che noi crescessimo nella fede”.
(La vita di J.R.R. Tolkien, H. Carpenter)
Le infelici vicende della sua giovinezza lo hanno reso un uomo pessimista, riversato spesso su sé stesso, in certi momenti incline allo smarrimento: questo lato del suo animo era capace di periodi di profonda disperazione. Più precisamente, e soprattutto in relazione alla morte della madre,quando questa indole prevaleva in lui gli imprimeva un intimo sentimento della caducità delle cose. Niente vi sfuggiva, niente sarebbe durato in eterno, nessuna battaglia sarebbe stata vinta per sempre”.
(La vita di J.R.R. Tolkien)
La credenza cattolica ha naturalmente acuito quest’anima sfiduciata e triste, rendendolo cosciente della fallibilità umana, della sua esistenza precaria e della sua radicata incapacità a far del bene. Per Tolkien l’umanità è malvagia, e la Grande guerra che ha inghiottito tanti giovani della sua generazione ne è un esempio. Così come lo sono anche i terribili marchingegni militari ideati per la Seconda guerra mondiale.
Le macchine che risparmiano la fatica creano solamente fatica peggiore e senza fine. E in aggiunta a questa sostanziale incapacità di creare, c'è la Caduta, che fa sì che i nostri aggeggi non solo falliscano i loro obiettivi, ma diano vita ad altre cose malefiche e orribili. Così inevitabilmente da Dedalo a Icaro arriviamo al bombardiere gigante. Non è certo un passo avanti sulla strada della saggezza!”.
(La realtà in trasparenza, a cura di H. Carpenter)
Ronald tuttavia, come già espresso in altri articoli, è abbastanza altalenante nell’esprimere concetti di siffatta specie: in certi momenti le sue parole appaiono piene di sconforto, come se non fosse praticabile nessuna via verso la salvezza, in altre invece una qualche redenzione sembra possibile.
[...] vecchia, vecchia, squallida, infinita immutabile incurabile corruzione. Tutte le città, tutti i paesi, tutte le abitazioni degli uomini – fogne! E allo stesso tempo uno sa che c'è sempre un po' di bene: sempre più nascosto, sempre meno chiaramente discernibile, che raramente esce allo scoperto […]”.
(La realtà in trasparenza)
A ben guardare l'intero Signore degli Anelli appare come un viaggio di liberazione morale e riscatto dell'umile, dell'uomo semplice che ogni giorno combatte contro le proprie debolezze ed imperfezioni, soffrendo ma procedendo ugualmente verso traguardi più alti E' quasi scontato domandarsi quanto ci sia, in questa immagine, dei tanti soldati che il professor Tolkien aveva conosciuto al fronte e soprattutto quanta clemenza ci sia verso di loro.
Così dicendo sono giunta ad un concetto fondamentale all'interno dell'opera e del pensiero tolkieniani: la pietà che salva e redime. E' la pietà, nella mente di Ronald, il sentimento che può indurre l'umanità al cambiamento, e soprattutto al miglioramento interiore. Per lui i buoni valori da seguire sono eminentemente cristiani come l'obbedienza, l'umiltà e la benevolenza verso il prossimo. Tutti sentimenti che anche Frodo dimostra di possedere in abbondanza. E allora, in questo modo, anche le manchevolezze connaturate all'essere uomini possono essere perdonate; poiché, essendo noi tutti creature imperfette e fallaci, sta solo alle nostre azioni dimostrare che possiamo crescere.
Frodo prova pietà verso Gollum perché vede in lui un riflesso di sé stesso. Decide di risparmiarne la vita poiché non è suo compito decidere chi debba vivere e chi morire, come anche Gandalf gli fa notare. Il triste hobbit è ben conscio che l'anello lo sta lentamente corrompendo, ma desidera continuare a credere che esista una possibilità di assolvimento, redenzione e mutamento positivo.
Cosa, quest'ultima, che peraltro si verifica sia ne Il Signore degli Anelli, sia in tutti gli altri romanzi di Ronald: si tratta dell'eucatastrofe, o catastrofe positiva, detta in altri termini. Egli, da buon fedele, crede fermamente nell'intervento divino, nell'eventualità che una forza superiore (e non necessariamente comprensibile) intervenga nelle vicende umane per cambiarle. L'eucatastrofe sarebbe, quindi, il radicale ribaltamento di una circostanza negativa votata interamente all'insuccesso. Esattamente ciò che sta accadendo quando Frodo, dinnanzi al cratere del vulcano, decide di non compiere il destino per cui in quel luogo è giunto, gettando la situazione nello sfacelo più completo. Frodo fallisce, fallisce nell'esatto momento in cui indossa l'anello al dito.
Ma ecco che accade qualcosa: interviene nuovamente Gollum, giocando l'ultimo ruolo che gli compete nel romanzo, rimpossessandosi dell'agognato tesoro con la forza e precipitando con esso nelle viscere della montagna. E risollevando così le sorti della Terra di Mezzo. La pietà di Frodo si rivela davvero provvidenziale!
Per concludere, credo che il cristianesimo dell'autore si riveli appieno in momenti letterari come quelli appena illustrati, piuttosto che in millantati quanto evanescenti simboli religiosi.

martedì 27 marzo 2012

La figura di Frodo

Tra i vari argomenti tolkieniani da me trattati negli ultimi articoli ce n'è uno che, per quanto tralasciato fino ad ora, occupa un posto particolare nel mio cuore di lettrice e sognatrice : la figura emblematica di Frodo Baggins.
Chi è Frodo? Quali significati trasmettono le sue azioni e perché egli riveste un ruolo di siffatta importanza nello svolgersi della storia descritta nel Lord?
Nel presente brano cercherò di offrire, rispondendo a queste ed altre domande, una specie di chiave di lettura per comprendere appieno l'intenzionalità comunicativa e letteraria dell'autore (o perlomeno quella che sembra emergere dagli scritti lasciati ai posteri).
Volendo iniziare dal principio Frodo è un hobbit, ma non un hobbit comune, bensì particolare e fuori dell'ordinario. È stranamente malinconico per essere una di queste creature dall' indole gioiosa, vivace ed entusiasta del mondo circostante. È spesso immerso nei suoi pensieri, dimostrando un'introflessione poco degna di un hobbit (si pensi ad esempio ai cugini Merry e Pipino dal carattere molto più frivolo, almeno in apparenza), ama ascoltare le antiche storie che Bilbo gli racconta e conosce varie lingue tra cui l'elfico. Come lo zio, insomma, è un hobbit colto e soprattutto poco incline a lasciarsi trascinare nella banalità e ripetitività dell'esistenza. Ciò potrebbe scaturire al fatto che in Frodo scorre sangue Tuc, famiglia hobbit non particolarmente rispettata proprio per via della stravaganza dei suoi membri. Stando alle prime pagine de Lo Hobbit, infatti, pare che un antenato Tuc abbia preso in moglie una Fata. Quel che è certo è che lo stesso Bilbo (la cui madre portava il suddetto cognome) abbandona le comodità e il calore della sua grande e bella casa per cimentarsi in un'impresa ardua e pericolosa, di certo non tipicamente hobbit!
Avventura che, peraltro, gli cambia completamente l'esistenza, rendendolo un hobbit diverso rispetto al momento della partenza. Anche Frodo dimostra sempre un'enorme ammirazione per lo zio, che coraggiosamente era riuscito a vivere esperienze incredibili incamminandosi su sentieri sconosciuti. Il destino vuole che proprio il giovane Frodo finisca per seguire le orme di Bilbo.
Un altro aspetto tuttavia unisce i due hobbit: entrambi, in momenti differenti, provano un sentimento di pietà per la creatura Gollum. Ed ecco che un altro personaggio fondamentale fa la sua comparsa tra le righe del discorso. Gollum è, per Frodo, una specie di alter ego; o forse, per meglio dire, uno specchio di sé stesso, di quel suo lato malvagio facilmente preda della seduzione dell'Anello. Frodo, durante il suo faticoso incedere verso Mordor, si aggrappa strenuamente alla speranza che anche quell'essere strisciante e viscido possa essere redento. Perché lui stesso possa essere redento. Ancora una volta Il Signore degli Anelli si mostra come un viaggio di redenzione dell'umile, un'ascensione personale verso il miglioramento e la salvezza. Ed è proprio qui che si dipana la dimensione cristiana del romanzo: l'idea che solo la pietà possa salvare l'umanità. Frodo ha tante occasioni per uccidere Gollum, ma non lo fa mai provando per lui sempre un misto di compassione e indulgenza. Lo comprende in profondità perché in lui vede, e commisera, sé stesso.
D'altro canto, però, lo stesso Gollum non sembra completamente immune alla benevolenza, qualcosa di buono c'è ancora nel suo animo e lo testimonia una scena in cui Frodo e Sam stanno riposando ed egli, avvicinandosi, sfiora il ginocchio del padrone. Ma vediamo con quali parole Tolkien descrive la situazione: “[...]più che un tocco era una carezza. Per un attimo fugace, se uno dei dormienti l'avesse potuto vedere, avrebbe avuto l'impressione di mirare un vecchio Hobbit stanco, logorato dagli anni che lo avevano trascinato assai oltre il suo tempo,[...]ormai nient'altro che un vecchio e pietoso derelitto”. Per tutto il romanzo Gollum è attanagliato da una feroce disputa tra due parti contrapposte della sua personalità: una malvagia e oscura, sottomessa al potere dell'Anello, l'altra servile e affranta, malinconicamente consapevole di ciò che ha perduto per sempre.
Il compagno migliore che Frodo ha è ovviamente Sam, il fedele e coraggioso giardiniere di casa Baggins, che non abbandona l'amico nemmeno nelle situazioni più difficili. Lo accompagna fin sulla bocca del Monte Fato, cedendogli la sua acqua, nutrendolo e proteggendo il suo sonno in ogni modo, addirittura sollevandolo sulle proprie spalle nell'ultimo brandello di strada.
Questi due personaggi sono uniti da un amore non immediatamente definibile: non possono essere classificati come amici, tanto viscerale è il legame, eppure il loro reciproco affetto oltrepassa anche quello fraterno, probabilmente approdando alla dimensione dell'amore genitoriale che un padre prova verso un figlio. Così accade tra Sam, forte e premuroso, e Frodo, fragile e in quale modo pieno di insicurezze.
Ed eccoci giunti alla fine.
Certo, alla fine Frodo fallisce, ma Tolkien non gliene vuole e concede ancora molto a quella sua piccola creatura che ha sofferto e si è scontrato con le inevitabili manchevolezze della condizione umana: la fallibilità, la precarietà, l'imperfezione. Nessun uomo riuscirebbe a portare a termine un'impresa di tale portata. Frodo è in effetti destinato al fallimento sin dalle prime battute del romanzo (tanto che egli stesso lo ripete in continuazione), ma ciò non gli impedisce di tentare seppur con le misere forze di cui dispone. Egli obbedisce e così facendo prosegue il viaggio arrancando lungo quell'interminabile salita che lo separa dal cratere del vulcano, in un'immagine che probabilmente ricordava allo scrittore i tanti soldati inglesi che, come lui, avevano combattuto la Grande Guerra, portando in trincea solo la propria pelle e un immenso coraggio. E' l'eroismo perenne e quotidiano”. (E. Lodigiani, Invito alla lettura di Tolkien).
Ma come esce da tutto ciò? Inevitabilmente cambiato nel profondo dell'animo, lacerato da tante e tali ferite che nessuna dolce Contea può guarire. E così parte, abbandona le terre mortali per solcare il mare con Gandalf e gli Elfi: questa è la ricompensa che Tolkien gli accorda.

martedì 20 marzo 2012

Tolkien e il mito

Smaug nella sua tana, Lo Hobbit J.R.R. Tolkien
gIn un articolo da me precedentemente pubblicato ho fatto riferimento all'importanza del linguaggio nell'opera tolkieniana, mettendo in rilievo l'interconnessione esistente tra la parola e la nascita di personaggi e storie. Nel presente brano ho intenzione di ampliare la riflessione sulla linguistica, includendo anche le allusioni mitologiche di cui Lo Hobbit e Il Signore degli Anelli sono disseminati.
In essi infatti non sono solo rintracciabili riferimenti interni alla stessa mitologia tolkieniana, ma anche a mitologie esterne, risalenti magari ad altri Luoghi e Tempi. Si tratta, in definitiva, di una delle bellezze più tipiche della letteratura di questo autore inglese: storie dentro le storie, caratteristica, questa, che peraltro dona agli scritti una profondità spaziale e temporale incredibile.
Il fascino de Il Signore degli Anelli è in parte dovuto, penso, all'intuizione di una storia più ampia sullo sfondo [...]” scrive Tolkien al riguardo.
Per chiarire meglio il concetto avanzo qualche esempio. Mentre si è immersi nella lettura di una pagina del Lord, si sa per certo che in qualche altro posto della Terra di Mezzo altri avvenimenti si stanno compiendo, nonostante non se ne venga posti immediatamente a conoscenza. Si rimane tuttavia coscienti che più avanti la rivelazione avverrà, come saltando fuori inaspettatamente da qualche piega del libro. E a quel punto molte cose saranno comprese.
Ma la profondità cui accennavo più sopra non si esaurisce solo in una dimensione spaziale interna al romanzo. Ronald Tolkien allude continuamente ad accadimenti precedenti la Terza Era (tempo nel quale si dipana il romanzo), ricollegandosi così agli scritti de Il Silmarillion. Dal suo punto di vista ciò è del tutto normale, visto che il volume appena citato non è altro che la raccolta degli scritti antecedenti l'epoca degli hobbit. Il Silmarillion, per quanto rimasto incompiuto, espone la Storia mitologica della Terra di Mezzo; l'alba dei tempi come si potrebbe dire, l'inizio di tutto. Ecco le parole che si leggono nell'incipit del libro:
Esisteva Eru, l'Unico, che in Arda è chiamato Iluvatar; ed egli creò per primi gli Ainur, Coloro che sono santi, progenie del proprio pensiero, ed essi erano con lui prima che ogni altra cosa fosse creata[...]”.
Si ha l'impressione di trovarsi di fronte ad una specie di Genesi, la Genesi della Terra di Mezzo per l'appunto. Proseguo comunque nella spiegazione di questo importante tema..
Le leggende contenute ne Il Silmarillion sono molte e, come dicevo, emergono spesso dal tessuto dei romanzi successivi, lasciando nel lettore la sensazione che esista altro fuori dei confini del libro, e che non tutto venga chiaramente esplicitato. Nemmeno i personaggi della storia ne sono sempre a conoscenza, qualche volta anche per loro esistono dei punti oscuri proprio alla stregua di ciò che succede nel mondo reale (ritorna il discorso del mondo Secondario creato ad immagine del Primario). Ovviamente un uomo come Gandalf ha molte certezze, o perlomeno possiede molti saperi arcaici, ma per altri soggetti l'antica saggezza data dalle storie che si tramandano oralmente non è accessibile o comprensibile appieno. In altri casi addirittura le leggende sono proprio dimenticate e solo pochi eletti le conoscono ancora, serbando vivo il ricordo della sapienza dei padri. Aragorn è uno di questi. È lui, ad esempio, che per salvare gli amici feriti in battaglia decide di cercare la “foglia di re”, pianta medicinale conosciuta ed utilizzata nei tempi antichi, ma nel presente obliata insieme alla tecnica per farne uso. L'esperto di erbe, chiamato dinnanzi al futuro re, dimostra di aver dimenticato il messaggio tramandato dagli antenati ed afferma: “[...]non teniamo questa cosa nelle Case di Guarigione[...]perché essa non possiede alcuna virtù a noi nota[...]. A meno, beninteso, che tu non dia retta a quelle vecchie strofe che donne come la nostra brava Ioreth ancor oggi ripetono senza afferrarne il significato[...]”. Tuttavia Gandalf risponde duramente, sottolineando ancora una volta l'importanza di rimembrare gli antichi valori: “[...]allora, in nome del re, va' a cercare qualche vecchio meno erudito ma più saggio che ne tenga in casa qualche foglia!”.
Anche Frodo conosce molte leggende (a sua volta apprese da Bilbo) e ciò fa di lui un hobbit del tutto fuori del comune. Ma di questo tratterò in un'altra occasione.
Fino ad ora però mi sono limitata a parlare degli accenni interni alla mitologia creata da Tolkien stesso, tralasciando un aspetto invece piuttosto rilevante: i temi mitici da cui il professore di Oxford ha tratto ispirazione per creare i suoi due romanzi maggiori. Questi ultimi sono letteralmente pieni di tematiche mitiche, prese a prestito da mitologie nordiche e rivisitate in chiave diversa (più moderna e individuale). Qualche volta si tratta di veri e propri filoni ancestrali, facenti parte della letteratura occidentale da sempre, senza che ormai sia materialmente più possibile risalire alla loro vera origine. Pensiamo ad esempio al drago, figura presente già nella Saga dei Nibelunghi, e oltremodo vivo in Tolkien. Cos'ha Fafnir di diverso rispetto a Smaug? Entrambi sono le creature mostruose per eccellenza delle leggende del nord d'Europa, entrambi possiedono, racchiuso in una grotta, un grande tesoro che un eroe intende raggiungere e conquistare. In entrambe le storie, a ben pensare, c'è di mezzo un anello, ma questa è un'altra faccenda e lo stesso Tolkien ha sempre affermato che non esistesse nessun legame tra i due anelli.
Altri simboli mitici sono la spada che forgia l'eroe, facente eco al ciclo arturiano; la foresta buia e oscura come luogo di passaggio e trasformazione, oppure il re che ritorna dopo un periodo di allontanamento e rafforzamento personale manifestando i segni visibili della sua regalità, tematiche ambedue rintracciabili in molte fiabe. E l'elenco, andando ad indagare in profondità, sarebbe molto lungo.
Come già detto, non si tratta di un mero e semplice lavoro di “copiatura”, ma di una rivisitazione in un'ottica differente e del tutto personale, atta ad integrare queste suggestioni arcaiche all'interno della dimensione innovativa della Terra di Mezzo.
In fondo un messaggio che personalmente ho sempre voluto trarre dall'operazione letteraria compiuta dal professor Tolkien, è che certi temi uniscono l'umanità intera, tanto da divenire simboli di bisogni universali che trascendono appunto sia il Tempo che lo Spazio. E le fiabe ne sono un esempio lampante.

n.b. Il Silmarillion è stato pubblicato postumo, ma il suo nucleo originario è di molto antecedente sia Lo Hobbit che Il Signore degli Anelli, rimanendo probabilmente lo scritto più antico di Ronald.

venerdì 9 marzo 2012

Tolkien per bambini




Ho estrapolato questa immagine da un libro titolato "Le Lettere di Babbo Natale" , pubblicato da Tolkien nel 1976, e ideato come semplice divertimento personale. Si tratta di un vero gioiello narrativo, una piccola perla nata dalla volontà dell'autore di dare voce all'immaginario natalizio dei suoi bambini.

Nell'introduzione al volume si legge:
"Per i figli di Tolkien l'interesse e l'importanza di Babbo Natale andavano al di là dei doni che metteva nelle loro calze la vigilia; Babbo Natale infatti indirizzava loro ogni anno una lettera, descrivendo, con parole e immagini, casa sua, i suoi amici e gli eventi, allegri e tristi, del Polo Nord [...]".

Non avendo ancora fatto il minimo accenno alle opere che questo scrittore ha creato per il pubblico infantile, ho sentito la necessità di presentare quello che, tra i vari volumi, ritengo essere il più particolare: una meravigliosa raccolta di illustrazioni e lettere, redatte nella "peculiare" calligrafia tremolante di Babbo Natale.
Credo che la lettura di queste opere minori getti pienamente luce sull'immaginario fantastico di Ronald e sulle sue suggestioni, in definitiva dicendo davvero molto su chi fosse come persona.

mercoledì 29 febbraio 2012

Le parole degli hobbit

Nell'articolo da me precedentemente pubblicato, ho parlato del rapporto esistente tra il Tolkien romanziere e il personaggio dello hobbit. Ho affermato che il professore di Oxford ha dato vita ad un mondo (quello popolato dagli hobbit appunto) in qualche misura coerente e autonomo al suo interno, capace di avvincere i lettori in una spirale fatta di progressiva sospensione dell'incredulità e di coinvolgimento totale con i fatti descritti. (Sulle Fiabe, J.R.R. Tolkien)
Egli, cosciente o meno di ciò, ha originato un autentico "universo secondario", in cui gli hobbit rivestono il ruolo di protagonisti e, nel medesimo tempo, anche di mediatori tra i fatti meravigliosi della Terra di Mezzo e la realtà dei lettori.
Ma, in tutto questo, chi sono gli hobbit? E quali sono le caratteristiche che li denotano come soggetti chiave dell'opera tolkieniana?
Primariamente è bene definire l'origine del loro nome: "hobbit" è una parola che Tolkien ha sempre sostenuto di avere inventato, anzi, per meglio dire, sarebbe stato proprio il termine in questione a provocare nella sua mente la figura dell'hobbit.
Il professore ha lasciato varie descrizioni del momento specifico in cui tutto ha avuto origine.Vediamone un paio:
"avevo un'enorme pila di compiti là (indica a destra), e correggere compiti d'estate è un lavoro enorme, molto laborioso e purtroppo anche molto noioso. Ricordo che presi un compito e scoprii -gli stavo quasi dando il voto massimo- che una pagina di quel compito era stata lasciata bianca. Gloria. Niente da leggere, così vi scarabocchiai sopra, non so perché, "In un buco nel terreno viveva un hobbit". (intervista della BBC a J.R.R. Tolkien)

"Uno dei candidati aveva graziosamente lasciato una delle pagine del compito bianche, la cosa migliore che possa capitare a un esaminatore. Io ci scrissi sopra "In una caverna sotto terra viveva un hobbit". I nomi spesso facevano scaturire dalla mia mente una storia. Alla fine pensai che fosse meglio scoprire a che cosa somigliassero gli hobbit. E questo non fu che l'inizio".
(La vita di J.R.R. Tolkien, H.Carpenter)

Oltre a queste spiegazioni dal sapore quasi leggendario, vi sono poi alcune interpretazioni linguistiche, secondo le quali la parola "hobbit" potrebbe avere radici nell'antica lingua inglese. Tolkien stesso ha avanzato un'ipotesi di questo genere, proponendo come antenato linguistico il termine hol-bytla, o "colui che abita in un buco". (Lo Hobbit annotato da Douglas A. Anderson)
Qualunque sia la derivazione della parola, tuttavia, una cosa appare certa: gli hobbit sono creature che irrimediabilmente vivono in caverne sotterranee, anche se dotate di ogni genere di comodità, come ben si può evincere dalla lettura de Lo Hobbit.
In innumerevoli pagine de Il Signore degli Anelli, inoltre, queste creature sono appellate"mezz'uomini", espressione che denota anch'essa una caratteristica essenziale dell'essere hobbit, e cioè la statura. Essi sono assai piccoli rispetto a noi uomini, alti all'incirca il doppio, eppur molto resistenti e coraggiosi, specialmente quando messi alle strette. Gli hobbit sono veramente rustici e adattabili con facilità alle situazioni avverse, nonostante il loro animo giocoso e, a tratti, quasi infantile. Tanto è vero che si potrebbe affermare che, della loro personalità, fanno parte due opposte dimensioni: il fanciullo da un lato, irrequieto e gioioso, e il vecchio dall'altro, saggio e paziente, ma fossilizzato su una meticolosa quotidianità. (Infanzia e mondi fantastici, W. Grandi)
In conclusione, questa incredibile invenzione letteraria manifesta una miriade di piccoli contrasti, sia linguistici che di significato. Ma non sono forse proprio le mille contraddizioni, uno degli aspetti che più ci affascina di Tolkien?

Nota per i lettori:
nel presente articolo, parlando di universo secondario, si fa riferimento solo ai libri de Lo Hobbit e de Il Signore degli Anelli, tralasciando invece il comparto mitologico contenuto ne Il Silmarillion.





mercoledì 22 febbraio 2012

Gli hobbit......e Tolkien

"In realtà io sono un hobbit (in tutto tranne che nella statura)".
(La realtà in trasparenza, H. Carpenter)

Sono parole, queste, scritte dall'autore stesso; parole che inducono i lettori a sorridere affettuosamente, ma anche a riflettere sulla reale natura del binomio "hobbit-Tolkien".
Egli si considerava davvero un hobbit? O, detto in altra maniera, la sua creazione per eccellenza è riuscita sinceramente ad instaurare un intimo rapporto con alcuni aspetti della vita del professore?
Credo che domande di siffatto genere passino, almeno una volta, nella mente di ogni persona che si interessi alle vicende della Terra di Mezzo. Non foss'altro perché dalle opere di Tolkien traspare un'autenticità eccezionale, come se egli si occupasse di fatti realmente accaduti.
Le descrizioni di luoghi e personaggi, sia ne Lo Hobbit che ne Il Signore degli Anelli, sono tanto meticolose e particolareggiate, da spingere i lettori a credere che egli potesse vederne gli originali nel momento stesso in cui ha composto i suoi scritti.
Un critico tolkieniano ha esposto il suo giudizio sul professore di Oxford con le seguenti, e illuminanti, parole: "magari il corpo è racchiuso in questa piccola stanza di periferia, ma la mente è molto lontana: vaga per le pianure e le montagne della Terra di Mezzo". (La vita di J.R.R. Tolkien, H. Carpenter)
Difficile rimanere indifferenti alle suggestioni che tale affermazione lascia affiorare nel pensiero: Tolkien ha infuso talmente tanto della sua personalità negli hobbit e nella Terra di Mezzo, da non poterne più essere completamente scisso. Cosa significa questo? Che egli ha vissuto i suoi anni più produttivi (dal punto di vista letterario) in una specie di realtà secondaria, surrogato della vita vera?
Assolutamente no, ma è proprio questo il punto nodale: Ronald Tolkien è riuscito a forgiare una dimensione mitologica coerente e logica al suo interno (cosa, questa, non semplice da farsi e a cui molti dei suoi seguaci hanno, senza risultato, aspirato).
Egli ha dato vita ad un mondo secondario consistente e unitario, plausibile per i lettori che in esso finiscono per identificarsi. Abbandonandosi alle storie degli hobbit, si sospende volontariamente l'incredulità e ci si lascia trasportare in un universo che si accetta come "vero", o, per meglio dire, "verosimile".
Per ritornare alla domanda di inizio articolo, quindi, la risposta più corretta da dare è: "no, Tolkien non si considerava un hobbit". Ma certamente era consapevole della profonda relazione esistente tra le creazioni letterarie e la sua vita.
Con questo, tuttavia, non si deve supporre che il professore ritenesse le une specchio dell'altra: Tolkien non amava diffondere al grande pubblico dettagli sulla sua vita privata, della quale si conosce tuttora relativamente poco, e parimenti riteneva inutile indagare quest'ultima con l'intento di ricercarvi i significati inscritti nelle opere stesse.

Tolkien è davvero un autore complesso, da problematizzare in continuazione!





lunedì 20 febbraio 2012

Il buon giorno di Bilbo

[...]Tutto quello che l'ignaro Bilbo vide quel mattino era un vecchio con un baatone. Aveva un alto cappello blu a punta, un lungo mantello grigio, una sciarpa argentea sulla quale la lunga barba bianca ricadeva fin sotto la vita, e immensi stivali neri.
"Buon giorno!" disse Bilbo; e lo pensava veramente. Il sole brillava e l'erba era verdissima. Ma Gandalf lo guardò da sotto le lunghe sopracciglia irsute ancora più sporgenti della tesa del suo cappello.
"Che vuoi dire?" disse. "Mi auguri un buon giorno o vuoi dire che è un buon giorno che mi piaccia o no; o che ti senti buono, quest'oggi; o che è un giorno in cui si deve essere buoni?!.
"Tutto quanto" disse Bilbo. "E' un bellissimo giorno per una pipata all'aperto, per di più. Se avete una pipa con voi, sedetevi e prendete un po' del mio tabacco! Non c'è fretta, abbiamo tutto il giorno davanti a noi!". E Bilbo si sedette su un sedile accanto alla porta, incrociò le gambe e fece un bell'anello grigio di fumo che salì in aria senza rompersi e si librò sopra la Collina.
"Graziosissimo!" disse Gandalf. "Ma stamattina non ho tempo di fare anelli di fumo. Cerco qualcuno con cui condividere un'avventura che sto organizzando ed è molto difficile trovarlo".
"Lo credo bene, da queste parti! Siamo gente tranquilla e alla buona e non sappiamo che farcene delle avventure. Brutte fastidiose scomode cose! Fanno far tardi a cena! Non riesco a capire cosa ci si trovi bello!" disse il nostro signor Baggins, e infilati i pollici sotto le bretelle fece un anello di fumo ancora più grande. Poi tirò fuori la posta del mattino e cominciò a leggerla, ostentando d'ignorare completamente il vecchio. Aveva deciso che non era proprio il suo tipo e voleva che se ne andasse. Ma il vecchio non si mosse. Stava fermo, appoggiato al suo bastone, fissando lo hobbit senza dire niente, finché Bilbo si sentì a disagio e anche un po' seccato.
"Buon giorno!" disse alla fine. "Non vogliamo nessuna avventura qui, grazie tante! Potete tentare sopra la Collina o al di là dell'Acqua". Con ciò voleva dire che la conversazione era conclusa.
"Però, quante cose sai dire col tuo Buon giorno!" disse Gandalf. "Adesso vuoi dire che ti vuoi sbarazzare di me e che il giorno non sarà affatto buono finché non me ne sarò andato"[...]
(Lo Hobbit, J.R.R. Tolkien)


Proprio un magnifico pezzo di letteratura! Che dimostra ancora una volta l'abilità tolkieniana di unire uno stile squisitamente umoristico con le minuzie e i cavilli della lingua.
Ogni situazione letteraria, per quanto fiabesca e apparentemente accessibile, sottende sempre un significato più complesso e radicato in una dimensione profonda, a sua volta strettamente avvinta al linguaggio stesso.




sabato 18 febbraio 2012

La Contea e la Merry England


Perché la Contea di Tolkien può rientrare a pieno titolo nella definizione di "Inghilterra fantastica" cui ho fatto riferimento nell'introduzione?
Per una ragione molto semplice: la Contea è un' incantevole rappresentazione di quello che già qualcuno prima di me ha definito "Merry England", ovvero "il sogno di un' Inghilterra rurale, fatta di cottage dai giardini curati, di lindi villaggi, di gente semplice e onesta, di quiete e candore". (da Infanzia e mondi fantastici W.Grandi)
La Contea, insomma, esprime pienamente l'ideale fantastico di un luogo lontano dal tempo e dallo spazio reali, e lontano soprattutto dalla sudicia società industriale, che, con i suoi prodotti corrosivi e la sua logica massificatrice, ha distrutto le antiche comunità agresti fondate sulla solidarietà tra individui e sulla genuinità del fare.
Tolkien stesso ha ricercato per tutta la vita la "sua" Contea, identificandola nella campagna inglese del Worcestershire e descrivendola poi con dovizia di particolari ne Il Signore degli Anelli. Egli, infatti, durante l'infanzia ha vissuto con la madre e il fratello a Sarehole, un villaggio della campagna inglese non distante da Birmingham. Il giovane Tolkien è rimasto in questo luogo solo per pochi anni, rivelatesi tuttavia molto formativi per la sua mente e il suo immaginario fantastico. E' qui, infatti, che ha interiorizzato l'amore per gli alberi, per la natura, e per le piccole cose autentiche che riempiono l'esistenza.
"Durante i miei primi anni di vita ho vissuto nella Contea in un'epoca preindustriale": sono queste le parole con cui il nostro autore soleva parlare della sua infanzia.
Se ci si sofferma sulle descrizioni della Contea, ci si trova immediatamente immersi in un mondo chimerico e affascinante, in cui tutto è brillante e delizioso: la vegetazione sfavilla di colori e l'aria è densa di profumi, ogni cosa cresce ed è genuina. Si tratta quindi di una terra bucolica, di un sogno meraviglioso scaturito a sua volta da un'immaginazione fervida e incontenibile.

.....e leggendo e leggendo ......ci si inabissa completamente nel mondo di Tolkien.

La cucina della signora de' Topis Viendallalbero



Che magnifici dettagli! Ogni cosa trova la sua giusta collocazione su scaffali e scomparti.

Tutti gli acquerelli di Jill Barklem sono degli autentici capolavori di minuzie.

Introduzione

I Love England....ovvero alla ricerca di quell'Inghilterra fantastica, rurale ed autentica, che fa capolino in tante opere letterarie, riempiendole di meravigliosi sostegni per la mia fantasia.
Non si tratta, in verità, di luoghi reali, ma piuttosto di sensazioni: immagini sfuggenti e sfuocate di qualcosa che non è mai esistito ma che riesce comunque ad affascinarmi, spingendomi oltre i confini del solito e del banale.
Come non rimanere incantati dalla Contea tolkieniana? Un luogo in cui si costruiscono ancora oggetti con le proprie mani, circondati da una seducente campagna fatta di pascoli verdi e ruscelli scroscianti.
O ancora, come non sognare di essere invitati a prendere il tè nel Palazzo della Vecchia Quercia, la più bella dimora esistente a Boscodirovo?.......Ecco cosa significa per me I Love England.